CONTRATTO A TERMINE “Un riflessione dolente”

Dopo la conversione in legge del d.l. n. 34/2014, che ha modificato il d.lgs. n. 368/2001, le principali novità in tema di contratti a tempo determinato nel settore privato sono:

  • l’abolizione delle causali giustificatrici dell’apposizione del termine e delle ragioni oggettive per la proroga,
  • la previsione di una durata massima triennale del contratto,
  • la possibilità di proroga fino a cinque volte nell’arco del triennio,
  • la previsione di un limite massimo legale al numero complessivo di contratti a termine instaurati da ciascun datore di lavoro.

La stipula del contratto a termine è oggi consentita senza necessità di specificare le ragioni obbiettive e temporanee fino ad oggi richieste: in tal modo risulta eliminato il requisito delle ragioni giustificatrici, che fino ad oggi ha generato la maggior parte del contenzioso.

Ai sensi della nuova disciplina:

  • il contratto a tempo determinato deve avere una durata massima di 36 mesi. È la prima volta che la legge individua una durata massima del primo contratto. Restano confermati, invece, l’obbligo di specificazione del termine in forma scritta e il periodo massimo di 36 mesi, comprensivo di proroga e rinnovi, oltre il quale non è possibile assumere a termine lo stesso lavoratore per lo svolgimento di mansioni equivalenti;
  • non sono più richieste ragioni oggettive per la proroga, con onere della prova a carico del datore di lavoro: è sufficiente che la proroga sia riferita alla medesima attività lavorativa. Si consente inoltre di prorogare il contratto più volte (8 secondo il testo iniziale del d.l. n. 34/2014, 5 all’esito della conversione) anziché una sola, come in passato;
  • il numero complessivo di contratti a termine non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato. È comunque sempre possibile un’assunzione a termine per le imprese che occupino fino a cinque dipendenti.

Su quest’ultimo limite si rendono necessarie tre osservazioni.

In primis la pena prevista per il superamento di tale limite, originariamente non indicata dal testo del decreto, è una sanzione amministrativa di tenore esclusivamente pecuniario, calcolata sulla retribuzione corrisposta ai lavoratori a termine assunti in eccedenza. La legge non prevede, invece, espressamente, la conversione a tempo indeterminato dei contratti stipulati in violazione del limite.

In secondo luogo, è fatta salva la possibilità, già prevista in precedenza, che i sindacati comparativamente più rappresentativi individuino una diversa soglia massima di utilizzo attraverso le cd. clausole di contingentamento contenute nei contratti collettivi.

Infine, in sede di prima applicazione, il datore di lavoro è tenuto a rispettare tale soglia entro il 31 dicembre 2014, salvo che un contratto collettivo applicabile in azienda disponga una soglia o un termine più favorevoli. In caso di violazione dei limiti sopra indicati, è fatto divieto al datore di lavoro di assumere lavoratori a termine.

Non vi è dubbio, però, che i maggiori interrogativi siano suscitati dall’abolizione delle causali giustificatrici, dalla nuova disciplina della proroga e dal regime transitorio.

È vero che l’eliminazione del requisito causale era stata già prevista, a determinate condizioni, già dalla c.d. riforma Fornero (legge n. 92/2012).

E tuttavia sussiste una differenza qualitativa rispetto alla riforma attuale, perché quell’intervento ammetteva un contratto “acausale” pur sempre entro un’ottica di eccezionalità, almeno sul piano formale, rispetto alla regola della specificazione delle ragioni giustificatrici.

Infatti, il contratto acausale era riservato all’ipotesi del primo rapporto di lavoro tra le parti di durata non superiore a 12 mesi, ferma restando la necessità di ragioni obiettive e temporanee per assumere nuovamente lo stesso lavoratore a tempo determinato.

Passando da versante nazionale a quello del diritto europeo, ci si potrebbe interrogare sulla compatibilità della scelta legislativa di eliminare le ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine con i vincoli stabiliti dalla direttiva 99/70/CE.

La direttiva comunitaria, però, ha come unici obbiettivi la garanzia del principio di non discriminazione e la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato.

A stretto rigore una successione di contratti si verifica solo in caso di rinnovo e non anche di proroga. Infatti, mentre la proroga accede al contratto a tempo determinato prolungandone la scadenza, il rinnovo consiste nella stipula di un nuovo contratto a tempo determinato a seguito della scadenza del precedente.

Al contrario, gli Stati godono di libertà in ordine all’introduzione – e, quindi, anche alla modifica o eliminazione – di causali per l’apposizione del termine per il singolo contratto, per la proroga o le proroghe.

Inoltre, secondo la direttiva, per prevenire gli abusi derivanti da una successione di contratti, è sufficiente l’introduzione di una soltanto tra tre misure espressamente indicate: numero massimo di rinnovi; durata massima complessiva di più rapporti successivi; previsione di condizioni oggettive per il rinnovo.

La normativa riformata risulta, pertanto, formalmente rispettosa della direttiva europea, in quanto attua la seconda delle tre misure indicate. Come già accennato, infatti, è previsto un termine massimo di 36 mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi, oltre il quale non è più consentito assumere a termine.

Sotto un altro punto di vista, l’attuazione della direttiva europea non deve costituire occasione per diminuire il livello di tutela garantito dalla legislazione nazionale (c.d. clausola di non regresso), ma il d.l. n. 34/2014 non è espressamente e direttamente attuativo della direttiva europea e, dunque, non viola la clausola di non regresso.

Infine, quanto al regime transitorio, l’art. 2-bis del decreto, all’esito della conversione in legge, limita espressamente l’applicazione delle nuove disposizioni “ai rapporti di lavoro costituiti a decorrere dall’entrata in vigore” delle stesse.

Di conseguenza, non potranno considerarsi legittime una seconda proroga o più proroghe di un contratto stipulato prima dell’entrata in vigore del decreto, e la prima proroga di tale contratto sarà comunque soggetta al previgente testo dell’art. 4, d.lgs. n. 368/2001 e, pertanto, dovrà essere giustificata da ragioni oggettive.

Allo stesso modo, il contratto a termine che sia stato stipulato e non sia ancora scaduto all’entrata in vigore del decreto, potrà certamente essere impugnato per insussistenza delle ragioni giustificative richieste sotto il regime previgente, a meno che non sia riconducibile al “contratto acausale” già introdotto dal Governo Monti con la legge n. 92/2012.

A tal proposito deve essere ricordato che i termini di decadenza per l’impugnazione decorrono dalla scadenza del contratto o dell’ultima proroga: si potrebbe quindi osservare un aumento del contenzioso sugli ultimi contratti e proroghe in scadenza, essendo la disciplina previgente indubbiamente più favorevole al lavoratore.

Dopo la scadenza del contratto o della proroga, invece, il rinnovo del contratto consentirà di ritenere applicabile integralmente ad esso la nuova disciplina.

In conclusione, è probabilmente troppo presto per valutare l’impatto di questa ennesima riforma del contratto a termine sui livelli occupazionali.

È ben noto che la progressiva introduzione di limiti al potere di recesso del datore di lavoro ha provocato crescenti pressioni, dal lato imprenditoriale, verso la liberalizzazione del contratto a tempo determinato, perché alla scadenza di un contratto legittimamente stipulato non si applicano, né si possono applicare, le tutele contro il licenziamento illegittimo.

E certamente la riforma apre alla piena fungibilità tra assunzione a termine e a tempo indeterminato, sebbene la prima risulti leggermente più costosa in termini contributivi.

Dall’altro lato, però, la possibilità di stipulare liberamente e di prorogare fino a cinque volte un contratto in un arco temporale di 36 mesi complessivi consente una notevole precarizzazione dei rapporti ed incide negativamente sull’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione e sulle concrete possibilità di tutelare i propri diritti. Il lavoratore assunto per sei mesi, infatti, potrebbe legittimamente vedersi prorogare il contratto di 6 mesi in 6 mesi fino a 3 anni senza alcuna garanzia di stabilizzazione.

On agosto 17th, 2014, posted in: AGGIORNAMENTI VERTENZIALI, LA PAGINA DEL SEGRETARIO by

Lascia un commento